YEMEN

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Marzo 2007, Manakhah, Yemen

Le jeep 4×4 mi scorrono davanti una dopo l’altra lentamente, riempiendo l’aria di polvere e fumo. Sarò l’ultimo a lasciare il villaggio, dopo essermi assicurato che nessuno del gruppo sia rimasto indietro o si sia perso.

E’ da ieri mattina che siamo in viaggio. Partiti dal porto di Aden, ci siamo lasciati alle spalle innumerevoli villaggi tra cui Jibla, i lussureggianti wadi e gli altopiani di questo paese montagnoso e brullo dall’incredibile fascino, per essere finalmente giunti ieri a Sana’a, la capitale. Una città scolpita dalla storia, con le sue torri, lo sterminato e labirintico suq, le case di pietra a forma di torre color biscotto e panna, i vetri a mosaico e l’alabastro che riflette i raggi del sole.

Per alcuni istanti mi perdo nel paesaggio che si estende di fronte a me fino all’orizzonte. Nell’aria vi è un incredibile magnetismo. Provo ancora una volta la sensazione di essere stato trasportato indietro nel tempo, in una sorta di medioevo arabo ancora legato alle carovane di spezie ed alle lotte tribali.

Case del villaggio di Manakhah a strapiombo sulla valle

Case del villaggio di Manakhah a strapiombo sulla valle

E’ dalla partenza del tour che queste antiche città dalle preziose architetture e dai paesaggi rocciosi mozzafiato mi stanno riempiendo gli occhi e l’anima. Le bizzarre abitudini di questo millenario ma ancora così sconosciuto popolo impregnano e stuzzicano i miei sensi di ogni tipo di immagine, odore e sensazione. Riti antichi, usanze che si tramandano da generazioni, ben lontane dalla globalizzazione a cui si è ormai abituati.

Lo stesso Mohammed, in piedi di fianco a me, intento a contare ad una ad una le auto della carovana motorizzata, è una guida un po’ fuori dal comune. Diverso da quelle più classiche con cui sono abituato a lavorare, con le t-shirt tutte uguali e le cartellette con gli orari e i dettagli del tour. E’ un uomo schietto, molto pratico, sulla cinquantina, con la barba incolta, una specie di turbante in testa e una tunica bianca, legata alla cinta da un grosso cinturone.

Mi ha detto di essere un capo tribù, una sorta di autorità riconosciuta e rispettata, così come le altre guide dell’escursione. Del resto è indispensabile viaggiare con questo tipo di persone per motivi di sicurezza da queste parti. Parla bene l’italiano, dice di averlo studiato e di aver vissuto in Somalia per alcuni anni, dove lo ha perfezionato. Mi ha raccontato durante il tragitto di essere sposato e di avere tre figli maschi, di cui è orgogliosissimo, ma di non essere mai uscito di casa insieme alla moglie per fare una passeggiata o per andare al ristorante. Ma questo è solo uno dei tanti aspetti sociali di questo popolo. Gente intransigente e selvaggia, ma accogliente e rispettosa.

Si erge orgoglioso tra i suoi uomini dall’aspetto rude e poco raccomandabile agli occhi di un occidentale, con il loro abito tradizionale e la jambia, o janyar, lo scenografico pugnale dalla corta lama ricurva abbinata ad un fodero ancor più marcatamente ricurvo legato alla cinta. Uomini che trascorrono le loro giornate quasi sempre fuori casa, lavorando e bevendo tè alla menta. Combinando affari e scambi nei suq dei loro villaggi masticando foglie di quat, una pianta energetica che viene consumata regolarmente ogni giorno, dopo pranzo, in un rito ancestrale che si consuma fino a tarda notte. Uomini che imparano presto cosa è la vita, che guidano già ogni mezzo motorizzato fin da ragazzini (naturalmente senza patente), e che camminano per strada tenendosi per mano come teneri innamorati in segno di amicizia.

Gente fiera come le sue donne, coperte completamente da abiti lunghi e veli neri e perennemente rinchiuse nelle loro abitazioni. Inavvicinabili e silenziose, per la maggior parte analfabete e vittime ancora oggi di antiche regole sociali che impongono loro comportamenti e stile di vita. Donne che sotto quei veli e quell’aspetto tetro ed inquietante nascondono persone desiderose solo di comunicare col mondo.

E’ un mondo dove il sole tramonta presto lo Yemen. Dove i campi sono puntinati da migliaia di sacchetti di plastica rosa e blu che servono a contenere la dose giornaliera di quat, e che vengono purtroppo gettati al vento una volta terminata. Un paese dove ancora oggi i matrimoni sono combinati, e l’unico interesse che accomuna uomini e donne è esclusivamente quello di crescere i figli.

Sento ancora nelle vene l’adrenalina di ieri notte, quando Mohammed mi ha portato a fare due passi nell’intricato ed inquietante suq notturno di Sana’a, nella parte antica della città, dichiarata Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO per la sua incredibile bellezza.

Vista su Sana'a, capitale dello Yemen

Vista su Sana’a, capitale dello Yemen

Mancano poche auto ormai, tutti stanno lasciando Manakhah e le sue case arroccate sulle rocce a strapiombo sul canyon roccioso. Dovrò salire sull’ultima jeep, per poi sorpassare a gran velocità tutta la carovana ed arrivare per primo alla prossima tappa. Su questi tornanti di mulattiere senza parapetti o precedenze, dove da un momento all’altro un dromedario o un asino condotto da un bambino ti possono tagliare la strada, ed una buca ti può far sbandare e finire contro la parete o giù lungo lo strapiombo.

Mi rendo conto solo in quel momento di essere rimasto solo in questo luogo sperduto su queste montagne disabitate, che se dovesse succedermi qualcosa nessuno mi troverà mai più o saprà che fine ho fatto. Non sarebbe né la prima né l’ultima volta che un turista occidentale sparisce in quelle lande ancora così isolate. Il mio telefono cellulare non riceve alcun segnale, mi devo fidare di coloro che sono con me. Di Mohammed, e di quel bizzarro autista, Hassann, coi quegli occhi allucinati, lucidi e iniettati di sangue per la reazione collaterale al quat che si sta lentamente ed avidamente succhiando da un paio d’ore.

Provo freddo adesso. E’ forse il vento che soffia tra queste montagne rocciose così aspre ed antiche. Non ho paura, ma provo disagio, e per un attimo mi manca l’equilibrio in piedi su questa roccia.

Ad un tratto mi sento toccare la punta delle dita della mano destra. Abbasso lo sguardo e lo incrocio con quello di una bambina, la quale richiama la mia attenzione e mi sorride con quel faccino dai grandi occhi avvolto in un velo rosa chiaro. Mi stringe le dita, vuole probabilmente che le compro uno dei mazzetti di fiori che sta portando in un recipiente rotondo, e che ha composto probabilmente lei stessa per guadagnarsi la cena della sera vendendoli ai turisti. Mette uno dei mazzetti nel palmo della mia mano, mi sorride ancora una volta e scappa salutandomi nella sua lingua. Non pretende nulla in cambio se non il mio sorriso ed il mio sguardo di approvazione mentre mi guarda ancora una volta allontanandosi. Porto i piccoli fiori al naso, ne annuso il profumo.
Mohammed mi tocca improvvisamente la spalla, mi legge nell’anima per qualche istante e mi invita a seguirlo. Non sono solo, non lo sono mai stato, nemmeno in quel luogo così lontano da tutto. Nemmeno in quel luogo così sperduto tra quelle aride montagne, ma così vicino al cielo che sembra quasi di poterlo toccare.

La città di Hodeidah, meta finale del nostro viaggio, è ancora lontana. Molte ore di auto mi attendono su strade impervie ed insidiose. Ma in fondo è così che vale la pena viverla.

Benvenuti tra le pagine del mio diario di viaggio!   

Potranno sembrarvi un po’ vintage in alcuni casi, e sicuramente troverete cose di cui parlo che sono cambiate nel tempo.
Ma ci sono luoghi, viaggi ed esperienze che mi piace ricordare così.
Buona lettura!

Francesco Lasciate un commento, ditemi se siete già stati in questo bellissimo Paese e cosa ne pensate.

 

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