- Correva l’anno 1999
- Un giorno indimenticabile
– Made in Italy - Welcome to London
– Il mio primo Cockney
– E fu notte
Per ogni cosa esiste sempre una prima volta, e senza dubbio una delle più adrenaliniche che si possa fare è la prima esperienza di vita all’estero da soli.
Sono passati più di venti anni dalla mia prima avventura sul suolo britannico e un po’ di nostalgia affiora sempre. Era l’estate del 1999, ma ricordo quasi ogni attimo vissuto di quei mesi come se fosse ieri.
Destinazione: ma naturalmente Londra, la capitale giovanile europea per eccellenza, la patria della musica e dei nuovi trend del momento. E ovviamente l’ecosistema ideale per le mie prime disavventure di viaggio.
Oggigiorno viaggiare è diventato facile (pandemie permettendo), ma allora era necessario avere una marcia diversa che ti permettesse di superare gli ostacoli psicologici e le classiche paure verso culture e luoghi sconosciuti.
Barriere linguistiche, zero tecnologia (iniziavano allora a diffondersi le prime forme di web, e gli smart phone erano ancora il sogno nella testa di qualche studente di ingegneria informatica), fidanzate preoccupate o fidanzati gelosi, genitori paurosi, costi elevati per muoversi e via dicendo erano solo alcuni dei deterrenti più comuni … per non partire mai.
Ma io volevo conoscere Londra, volevo sperimentare sulla mia pelle tutto quello che avevo letto sui libri di inglese a scuola o visto in televisione.
Mi stavo rendendo conto sempre di più che l’immaginazione non mi sarebbe più bastata.
Correva l’anno 1999
Tra timori e perplessità in una calda mattina di giugno prendo il mio volo per quella che sarebbe stata la mia nuova casa per tutta l’estate. Adrenalina a mille e convinzione alle stelle, tanti dubbi in testa e il cuore in modalità tachicardia costante.
Detto tra noi, in quegli anni le relazioni sociali giovanili in ambito europeo non erano proprio come quelle attuali.
Ricordo che giravano leggende su fantomatiche rappresaglie contro italiani e spagnoli in quello che veniva chiamato il “Latin Day”. Era una sorta di moderna caccia alla volpe che avveniva, secondo i racconti, il venerdì sera nelle periferie delle grandi città o nei classici paesotti britannici, e durante la quale bande di adolescenti inglesi devastati dagli effetti dell’alcool ingerito andavano in giro a caccia di “latini” per pestarli.
Un giorno indimenticabile
Ancora prima di toccare il suolo inglese realizzo guardando fuori dal finestrino di come il paesaggio sia ben lontano da quello che ti aspetti quando pensi ad una metropoli.
Villaggi, campi coltivati e foreste si fanno sempre più vicini, ma non vi è nulla che possa farmi capire che stiamo per atterrare a Londra. Messo piede nell’aeroporto di Stansted comprendo di aver fatto un incredibile e clamoroso errore di valutazione. Mi trovo infatti a circa 50 Km di distanza, e mi sarà necessaria almeno un’altra ora di viaggio per arrivare a Victoria Station.
Dopo quel viaggio in treno piuttosto breve (ma ti assicuro, letteralmente interminabile) raggiungo la capitale britannica.
Il centro città mi accoglie spalancando le sue porte in tipico stile British, e cioè con quella fantastica pioggerellina per la quale non pensi sia necessario l’ombrello ma che sulla lunga ti inzuppa ugualmente. Lentamente e inesorabilmente.
Tipica segnaletica della metropolitana londinese ©Foto di PublicDomainPictures
Made in Italy
Mi ci rivedo ancora, in magliettina e pantaloncini estivi cercando riparo dalla pioggia con stampata ben chiara a caratteri cubitali sulla fronte la scritta: “Ciao, sono italiano!”.
Con l’occhio destro intento a sorvegliare i bagagli ed al tempo stesso a scannerizzare la moltitudine di variopinti e frenetici passanti, ed il sinistro fisso sulla mappa della città per scegliere il percorso ideale per raggiungere l’ostello.
Quel giorno era tutto così nuovo e diverso, ma presto il timbro sulla fronte sarebbe scomparso e avrei fatto anche io parte di quella frenesia multietnica, imparando a muovermi veloce con il “passo alla londinese” tra le strade e i cunicoli di quella instancabile e vorticosa metropoli.
Noto subito con un certo disagio di quanto la metropolitana di Londra appartenga letteralmente ad un altro pianeta rispetto a quella di Milano e le sue linee striminzite (erano solo tre ai tempi), e in pochi istanti il mitico “Mind the gap” degli auto parlanti entra per la prima volta nelle mie orecchie.
Credo che sia stato in quel preciso istante che mi sono reso conto che da lì non sarei più tornato indietro.
La scritta Mind the Gap lungo i binari della metropolitana
Welcome to London
Dopo una mezz’ora di cammino, trascinandomi dietro i miei due pesantissimi bagagli, arrivo all’ostello.
Mi è capitato spesso nella vita di dormire in ostelli. E’ un’esperienza che deve essere vissuta con la giusta spensieratezza e l’approccio corretto.
Generalmente si trovava sempre posto per dormire in un ostello della gioventù, considerando la dinamica di condivisione dei letti nelle camere, tanto che nella maggior parte dei casi si poteva anche non riservare.
E anche quel giorno quindi, confidente nella mia prenotazione, mi appresto a varcarne la soglia.
Il mio primo Cockney
Mi accoglie un coetaneo biondiccio e brufoloso che parla in un inglese abbastanza ostico per il mio orecchio.
Scoprirò solo più avanti che si trattava del dialetto Cockney, parlato proprio dai nativi di alcune aree di Londra.
Dopo un rapido controllo sul registro delle prenotazioni mi informa che non ci sono letti liberi e che per errore di un collega (che ho sempre dubitato fosse mai esistito) la mia prenotazione non è stata registrata.
Improvvisamente mi si gela il sangue nelle vene. Avrei dovuto alloggiare li solo due giorni, in attesa di spostarmi presso l’abitazione che mi avrebbe ospitato per il resto della mia permanenza, ma ora mi ritrovo completamente spiazzato e senza un tetto sopra la testa.
Tutto di un colpo l’entusiasmo iniziale inizia a trasformarsi in smarrimento, e preoccupazione e ansia iniziano ad aleggiare minacciose sopra la mia testa come due avvoltoi affamati. Nel pieno della mia apnea mentale ad un tratto l’addetto alla reception impugna la cornetta di un vecchio apparecchio ed inizia a fare qualche telefonata.
Dopo una snervante serie di chiamate, di tutti i tentativi fatti uno solo si risolve con successo, e riesco a confermare finalmente una sistemazione alternativa in un altro ostello situato molto distante da questo. Ovviamente gli ostelli più belli o più vicini risultano tutti pieni, e sono costretto ad accontentarmi dell’unico disponibile senza avere la più pallida idea di quello a cui sto andando incontro.
Alla ricerca di una camera ©Foto di Ahmed Gomaa
E fu notte
Sono le 8 di sera circa quando, stanco, affamato e ancora umido dalla pioggia mi inoltro sulle scale per raggiungere la mia camera di quella fatiscente e puzzolente bettola definita come struttura di accoglienza alberghiera. Trovo una camera multipla da dodici letti che dovrò compartire con persone sconosciute, ragazzi e ragazze provenienti da tutto il mondo.
Ricordo di non aver chiuso occhio quella notte.
Sarà stata forse l’adrenalina del viaggio, o la scomodità del letto, oppure la diffidenza e la naturale, inconscia paura che potesse accadermi qualcosa.
Ma credo sia stato qualcos’altro a tenermi sveglio.
Ripensandoci oggi non so se considerare quanto ho qui raccontato come una vera e propria disavventura. Forse sarebbe più appropriato chiamarlo battesimo, o prova di iniziazione.
Sta di fatto che durante quelle ore notturne, fissando una piccola finestra senza persiane e dai vetri umidi, ho realizzato che non mi importava più nulla di quello che mi era capitato durante quella lunga ed estenuante giornata.
Tutto era così nuovo ed affascinante che il mio unico desiderio era quello di conoscere ogni cosa di Londra: le sue strade, i suoi luoghi più vitali e la sua gente. E da quel momento anche quegli sconosciuti in quei letti sarebbero potuti diventare i miei nuovi compagni di viaggio.
Londra









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